II. Lavoro inverso 
Abbiamo a che fare con il lavoro inverso ogniqualvolta siamo di fronte a tassi di autofagia superiori a 1. Possiamo fare riferimento al lavoro inverso anche in termini di “occupazione onerosa” (occupazione che può essere sostenuta solo a fronte di congrui esborsi, che sistematicamente eccedono il reddito ad essa collegato).
All’interno di questo nucleo tematico, viene proposta (alquanto provocatoriamente) la nozione di “lavoro come bene di consumo”.
In tal senso, si sostiene la tesi secondo la quale, se il lavoro assorbe più reddito di quanto riesca a generarne, allora questo, per essere svolto, deve essere preventivamente acquistato. Questo nucleo tematico funge da raccordo con un ulteriore nucleo tematico, quello della disoccupazione conservativa, al cui interno viene avanzata l’idea di riscrivere le statistiche sull’occupazione, separando il lavoro “normale”, da quello inverso.
L’occupazione così descritta ci permetterebbe di ottenere informazioni accurate sull’autofagia occupazionale globale dell’intero mercato del lavoro.
In questo stesso nucleo tematico, si discute l’opportunità di rivedere i concetti di disoccupazione volontaria e involontaria, con tutte le possibili conseguenze a livello di sostegno alla disoccupazione. Un ulteriore spunto di riflessione riguarda il rapporto tra lavoro inverso e mobilità sociale.
Alcuni di quei lavori che permettono avanzamenti socioeconomici (il notaio, l’avvocato, il docente universitario, l’architetto, ...) si configurano spesso, soprattutto nei primi anni del loro svolgimento, come vere e proprie occupazioni onerose.
I praticanti o gli aspiranti professionisti, all’inizio della loro carriera, devono necessariamente accettare configurazioni occupazionali ad elevato tasso di autofagia. Lo svolgimento di queste occupazioni, che è condizione imprescindibile per accedere alla professione e alle conseguenti possibilità di mobilità sociale, è riservato solo a coloro che dispongono di finanziatori disponibili a erogare sostegno finanziario a loro favore. Si tratta forse di una forma di discriminazione all’accesso al mondo del lavoro?